Goliardo Padova
(Casalmaggiore 1909, Parma 1979)

Sola sulla vigna, tutto per sé
1970, olio su tela

Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incidersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica. Sotto le viti è terra rossa dissodata, le foglie nascondono tesori, e di là dalle foglie sta il cielo.
È un cielo sempre tenero e maturo, dove non mancano – tesoro e vigna anch’esse – le nubi sode di settembre.
Tutto ciò è familiare e remoto, infantile, a dirla breve, ma scuote ogni volta, quasi fosse un mondo.
La visione s’accompagna al sospetto che queste non siano se non le quinte di una scena favolosa in attesa di un evento che né il ricordo né la fantasia conoscono. Qualcosa di inaudito è accaduto o accadrà su questo teatro. Basta pensare alle ore della notte, o del crepuscolo, in cui la vigna non cade sotto gli occhi e si sa che si distende sotto il cielo, sempre uguale e raccolta.

[…] Ci sono cieli e piante, e stagioni e ritorni, ritrovamenti e dolcezze, ma questo è soltanto passato che la vita riplasma come giochi di nubi.
La vigna è fatta anche di questo, un miele dell’anima, e qualcosa nel suo orizzonte apre plausibili vedute di nostalgia e speranza. Insoliti eventi vi possono accadere che la sola fantasia suscita, ma non l’evento che soggiace a tutti quanti e che tutti quanti abolisce: la scomparsa del tempo.
Questo non accade, è: anzi è la vigna stessa.

Cesare Pavese, La vigna, Feria d’agosto

Nel racconto di Pavese la vigna è un luogo incantato, magico, una porta verso l’infinito. E allora la immaginiamo così, infinita, innanzi a noi. Un terreno fertile che accoglie le viti, piantate con cura dal contadino, una accanto all’altra a formare filari regolari. Nutrite dalla pioggia e dal sole, le piante sono cresciute, hanno ramificato, hanno emesso le tipiche foglie lobate e si sono ricoperte di frutti corposi, i grappoli d’uva che giunti a maturazione, a settembre, verranno raccolti per trasformarsi in delizioso vino.
Il rapporto tra l’uomo e il vino ha origini antichissime, risale all’epoca preistorica; i Sumeri, abitanti della Mesopotamia, già nel III millennio a. C. producevano vino e presso gli antichi Egizi era una bevanda elitaria, offerta a re, funzionari e sacerdoti durante le cerimonie religiose. I Greci introdussero la coltivazione della vite e la produzione del vino in Europa, e successivamente gli Etruschi e i Romani ne perfezionarono le tecniche.
La vigna è simbolo di fecondità, di produttività, di benessere. Lo stesso Boccaccio, nella III novella dell’VIII giornata del Decamerone, intitolata “Calandrino e l’elitropia”, per trasmettere l’idea della ricchezza del luogo, descriveva la contrada Bengodi nell’immaginario paese di Berlinzone, come la località “nella quale si legano le vigne con le salsicce”.
Anche nel Cristianesimo la vigna è un simbolo importante, spesso presente nelle Sacre Scritture a esprimere il mistero del Popolo di Dio. Già nell’Antico Testamento i profeti per indicare il popolo d’Israele ricorrevano all’immagine della vigna. Il Patriarca Noè proclamava la cessazione del diluvio universale e conseguentemente dell’ira di Dio, piantando una vigna sul monte Ararat (Libro della Genesi).
La vigna rigogliosa e curata è segno della presenza di Dio, è il popolo che cammina seguendo la Sua luce.
Nel Nuovo Testamento, Gesù riprende il simbolo della vigna e se ne serve per rivelare alcuni aspetti del Regno di Dio. In alcuni passi del Vangelo, Cristo stesso diventa la vite e i tralci diventano allegoria dei fedeli, i quali solo rimanendo accanto a Lui potranno godere della linfa eterna.
La vigna è protagonista anche nel dipinto di Goliardo Padova, come viene rimarcato nel titolo “Sola nella vigna, tutto per sé”, un olio su tela del 1970.
Sul terreno compatto, arso dal sole, file regolari di ciuffi d’erba si susseguono da sinistra verso destra, con andamento diagonale e ascensionale.

Sul lato destro della tela s’innesta, verticale, il contorto fusto della vite, dal quale si snoda una fitta maglia di tralci e pampini, di un verde smeraldo, intenso talvolta scuro. Foglie rese con svirgolate dense di colore nero sembrano attorcigliarsi attorno al tronco. Sole foglie, non è ancora giunto il tempo dei frutti.

Il cielo è un sottile velo di color giallo ocra con sfumature verdi e arancioni, nel quale emerge una macchia chiara, tocchi bianchi a formare un timido sole che fatica ad uscire, imprigionato dietro quella cortina. Su quel cielo, in alto a sinistra, sottile, quasi invisibile appare la firma dell’artista, “padova”.

È solo apparentemente una natura serena, poiché la quiete del vigneto è minacciata da una presenza inquietante, misteriosa, quasi invisibile causa il suo farsi tutt’uno con le foglie. È un insetto irreale, sproporzionatamente grande rispetto agli altri elementi naturali presenti; le ali sono quasi trasparenti, gli occhi tondi e fissi sono grumi di colore, le zampe, lunghe e sottili si moltiplicano e si aggrappano con forza alla vite. La creatura è lì, “sola nella vigna”, prende possesso del campo, ha “tutto per sé” e domina la scena.

Le pennellate sono decise, spezzate, intrise di colore. Il pittore va oltre l’apparente tranquillità del paesaggio, in questo incontro con la natura avviene il trapasso dal reale alla sua dimensione più profonda e intima, visionaria e talvolta tormentata, come rivela la presenza inattesa dell’insetto.
La visione di Padova è profonda: egli vede e dipinge. Lo spunto gli viene sempre offerto dalla realtà. «La parola che ricorre con maggior frequenza nel discorso di Padova quando parla della pittura in genere, e in specie della sua, è il verbo “vedere”. Padova dipinge solo quello che vede; e per lui vedere è aprire gli occhi sul mondo.» – affermava il critico Roberto Tassi, in una presentazione del maestro scritta nel 1964.
Negli anni ’70 Padova lavora intensamente, con impegno e dedizione, replicando in forme diverse, gli stessi temi: gli uccelli, i nidi, gli insetti. Sono soggetti cari che osserva e cattura durante solitarie escursioni tra i boschi dell’Appennino. Questi sono i temi che la natura gli offre e che egli diligentemente approfondisce, fa suoi e restituisce. La montagna, con i suoi boschi e i suoi sentieri, uno scenario divenuto familiare, da quando, nel 1962, aveva deciso di acquistare una casa nei pressi di Tizzano.
Dunque, in questa tela, come in altri dipinti realizzati in quegli anni, ad esempio “Sulla vigna matura” del 1970 e “Altalena degli insetti” del 1971, insetti enormi, spesso deformi e sproporzionati incombono sulla scena con la loro “danza di morte”, come l’ebbe a definire l’amico critico Gianni Cavazzini, strenuo ammiratore di Padova e dei suoi animali. Queste presenze oscure plasmate dal fuoco del colore diventano protagoniste del racconto.

Scheda realizzata in collaborazione con Artificio Società Cooperativa