Goliardo Padova
(Casalmaggiore 1909, Parma 1979)

Paesaggio n. 31
1959, olio su tela

Il dipinto che oggi presentiamo è un ‘paesaggio dell’anima’ il cui titolo è semplicemente Paesaggio n. 31; si tratta di un olio su tela di Goliardo Padova e fa parte del corpus di opere dell’artista donate dalla figlia Fiammetta alle Collezioni d’Arte di Fondazione Cariparma nel 2005. La firma, “Padova”, è apposta nell’angolo destro del dipinto sul recto, mentre il titolo compare sul verso.

Siamo nel 1959, il periodo in cui Goliardo Padova torna alla pittura dopo la terribile e dolorosa esperienza della guerra a cui seguì il dramma della prigionia.
Era il 1942, quando Goliardo Padova, giovane artista lombardo, diventato padre da pochi mesi della primogenita Fiammetta, partì per la guerra; arruolato in fanteria fu inviato prima in Sicilia e poi in Francia dove, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, fu catturato e deportato dai tedeschi nel campo di concentramento di Karlsruhe. Riuscì a fuggire, raggiunse a piedi l’Italia e si rifugiò nella natia Casalmaggiore. Si chiuse nel silenzio per curarsi le ferite, abbandonando matite e pennelli. Il silenzio si protrasse per sette lunghi anni, dal 1947 al 1955.
La ripresa non fu facile, tutt’altro, fu lenta e dolorosa.
Fu anche grazie alla vicinanza e al sostegno di amici del mondo della cultura, dell’arte e della poesia, quali, per citarne solo alcuni, Francesco Arcangeli, Attilio Bertolucci, Roberto Tassi, Arturo Carlo Quintavalle, che riprese a dipingere prima solo a tempera e dal 1957 anche con gli amati olii. Tornare a dipingere, significava per Padova scoprirsi nuovamente vivo. La pittura tornava ad essere una necessità e vi si gettò con slancio e dedizione, dimenticandosi del tempo.
«Gli bastava lavorare. Era felice del suo lavoro, seppure sempre critico con sé stesso e consapevolmente meditativo», scrisse l’amico Giuseppe Tonna.
Nella ripresa, Padova riagguanta i soggetti cari, i temi familiari legati al Po e alla natura: paesaggi, lanche, voli d’uccelli di passo, figure. Colori e materia si fondono in trame fitte da cui la luce emerge con l’incanto stupefatto di chi apre gli occhi impossessandosi lentamente della realtà esterna, trasfigurata dalle sensazioni che suscita.
Padova, dunque, emerge quale pittore di pochi temi, scelti con cura, studiati, continuamente rielaborati e restituiti in molteplici varianti, come intense combinazioni di segni.
Dopo alcune prove legate alla lezione di Picasso e alla geometrizzazione delle forme di matrice neocubista e neofuturista, dagli anni 1957-58 in avanti si conferma l’adesione di Padova all’informale. Punta sulla materia senza, tuttavia, perdere di vista la forma. «Quella forma libera, meravigliosamente varia che ha la natura dalle sue parti, le sue lanche, i suoi villaggi rasi terra, le sue lame d’acqua ferma, ecc. Si potrebbe continuare, non all’infinito perché non sono molte in effetti le cose che Padova vede, se pure moltissime sono le sembianze che esse assumono sulle superfici dipinte»; queste parole, di Attilio Bertolucci, amico e ammiratore del pittore e complice del suo ritorno all’arte, le leggiamo nella prefazione di un catalogo di mostra del 1960.
L’artista, dopo aver superato la fase critica del rifiuto della pittura, approda al naturalismo informale che ha coinciso con la stagione d’oro della sua maturità.
Lo scenario naturale all’interno del quale si è fatto uomo è contemporaneamente fonte necessaria e primaria d’ispirazione della sua pittura. Solo questa terra è in grado di alimentare senza sosta la sua ricerca pittorica. Solo il predominio della materia sulla forma è il metodo; l’elemento naturale semplice, puro e immediatamente decifrabile, ora, nelle sue opere, non è più riconoscibile ha perso consistenza, volume, forza.
Nel 1959, partecipa alla mostra “7 pittori cremonesi”, tenutasi alla Galleria XXV Aprile di Cremona e in quell’occasione, Elda Fezzi critica d’arte, definisce i quattro paesaggi esposti dal maestro come un esempio «di ciò che si può fare in pittura seguendo ancora le tracce della natura, ma osservandone l’incredibile vita in uno strato più segreto di quello che non sia la superficie visibile».
Questa caratteristica è proprio quella che ritroviamo nel nostro dipinto.
La superficie della tela non presenta angoli, lembi o parti libere dalla materia.
La vegetazione fitta, montante si innalza su più livelli e punta a raggiungere il vertice della tela; costringe il cielo a ritirarsi, a perdere campo, ad abbandonare lo spazio, quasi spinto fuori dall’opera.
Qui non assistiamo all’invasione della scena da parte di alti pioppi, imponenti salici, maestosi ontani, alberi tipici di questa porzione “bassa” di pianura.
Siamo fermi ad un livello inferiore fatto di erba e di arbusti spontanei, che sembrano spuntare da uno strato limaccioso di terra, una striscia orizzontale di verde, marrone e giallo.

Al centro della tela emerge prepotentemente un cespuglio, una matassa dall’andamento curvilineo, nella quale si innestano trasversalmente sciabolate di colore grasso e scuro. Padova traccia solchi, penetrando così la materia densa e corposa.

Nel 1958, sempre Attilio Bertolucci, nel catalogo della mostra tenutasi alla Galleria d’arte Cairola di Milano, scrive: «Padova opera nello spessore della pittura, opera stratificando i colori, dipinge come incidendo uno strato denso, insieme da trafiggere e lisciare dolcemente con il pennello. Padova dipinge con la stecca del pennello e con la spatola, col polpastrello e con il palmo della mano. Padova costruisce il proprio dipingere variando i contrasti dei colori, ed è facile ritrovare pitture in apparenza simili ma diversissime di intenti e significato».
Superato il cespuglio, su un fondo verde si slanciano verticali, sottili ciuffi d’erba che creano una fitta rete nera, dalla quale spuntano timidi tocchi di azzurro, simili a delicati fiorellini di campo.

In alto, un fazzoletto di cielo, dai toni bruni, insolito, inquietante, irreale.

«I suoi cieli hanno i colori delle emozioni, della scoperta violenta, aggressiva, scomposta e disarticolata del riflesso interiore di un vedere improvviso, uscendo dalla cecità, ma non ancora percependo cromie e forme con nitidezza» afferma il critico Marzio Dall’Acqua.
Il titolo non fornisce indicazioni utili a comprendere dove è stata ‘scattata’ questa istantanea, perché al maestro non importa renderlo noto. Dunque non sappiamo in quale angolo disperso e silente della campagna padana il pittore si è abbandonato ad ascoltare le proprie emozioni, a cogliere suggestioni, a sentire l’appartenenza alla natura. Ha volontariamente dimenticato le coordinate geografiche di quel luogo, per riscoprire, con un esercizio intimo consolidato, il ‘paesaggio’ dell’anima, da restituire sulla tela come proiezione interiore.
Il pittore guarda alla natura e ai suoi fenomeni e li interpreta in maniera emozionale. Sente la natura come terra, terra madre, che plasma l’essere umano e partecipa alla sua sofferenza, cosciente che può anche tramutarsi in spazio asettico, impassibile, talvolta vuoto, originando inquietudini.
In questi anni i paesaggi di Padova non sono solo olii su tela, ma a volte sono disegni a carboncino realizzati dal vivo, altre volte acquerelli, tempere oppure chine su carta. La sua libertà espressiva passa anche attraverso la varietà dei supporti, dei colori impiegati e degli strumenti utilizzati.
Un anno dopo la realizzazione di questo quadro, il poeta parmigiano Gian Carlo Artoni dedica una poesia a Goliardo Padova, spesso definito dalla critica ‘poeta’ visionario e inquieto:

Non sai se è terra o acqua o dalle lievi
foglie argentee dei salici caduta
nebbia sul fiume in questa breve luce
o fuoco che divampa nei colori
d’autunno: oggi l’essenza
della terra padana sembra chiusa
tra le rame dei pioppi nell’azzurro
cielo che lentamente va sfumando
verso la notte, ma se i fili d’erba
hanno un muto risalto – uno per uno
in quest’aria sfatata ove non scorgi
né una vela lontana né il racchiuso
esistere dei monti – oggi risorge
nell’uomo, abbandonato al breve regno
della sua ombra, il peso
dell’umana misura

Scheda realizzata in collaborazione con Artificio Società Cooperativa