Enrico Fereoli
(Sala Baganza 1901 – Parma 1991)

Barricate di Parma
1981-82

«Facevo il barbiere e il falegname la malattia mi ha scoperto pittore», questa, in sintesi, per Enrico Fereoli l’esegesi della sua attività di artista. Il prodigio sembra aver avuto luogo verso la fine degli anni Cinquanta del ‘900 quando fu costretto in casa da un’angina. Racconta ancora: «sono nato a Sala Baganza, provincia di Parma, il 1° dicembre 1901. Ho frequentato le scuole fino alla quarta elementare, poi ho incominciato a lavorare nelle botteghe da barbiere e da falegname, a 17 anni ho incominciato nella stagione estiva a fare il “bollista” nelle fabbriche per la lavorazione del pomodoro (boullista: addetto alla cottura dei pomodori in una fabbrica di conserve). Ho continuato a praticare questi mestieri saltuariamente sino al febbraio del 1958, anno in cui sono stato colpito da una grave malattia che mi ha costretto ad abbandonare ogni attività. Nel mese di novembre del 1960, sentendomi migliorato ma costretto a rimanere sempre in casa, parlando un giorno del mio stato di salute con mio figlio, questi mi suggerì di dipingere. È un lavoro leggero, lo potresti fare. Gli risposi, non scherzare, non so fare una O col bicchiere, puoi immaginare dipingere? Non ci provo nemmeno. Ma un giorno, trovando per caso un cartoncino con fissati sopra alcuni colori a tempera e un pennellino, oggetti che adoperava mio figlio a scuola, mi misi a copiare il paesaggio di una cartolina, e precisamente un corso d’acqua in mezzo a colline».
Comincia così l’avventura di Fereoli pittore, in una modesta abitazione di via Bassano del Grappa a Parma, una casa INA degli anni Cinquanta carica di dignità, dove nel frattempo si era trasferito dall’amata Sala Baganza con la famiglia. Ricorda Gianni Cavazzini come l’artista in erba avesse scoperto «la realtà sotto la luce livida dell’alba [e come] una lunga consuetudine all’osservazione gli avesse fissato nel cuore le strutture colorate delle case, le fughe specchiate dei vicoli della città». Quella di Fereoli si manifesta come «una “naiveté” nutrita di autentica passione per la pittura attraverso i temi prediletti: Sala Baganza, con i suoi ambienti popolari, rurali o rustici, le case addossate le une alle altre sul lungo Parma, testimonianze tutte di una esistenza che trova riscontro in un talento sincero, difficile da definire ingenuo, secondo i canoni della pittura naïf, sviluppato di pari passo con le esperienze della vita, là dove la vita si incontra con la sensibilità per le cose».
Il riconoscimento arriva quasi per caso, come riporta la figlia Anna, in un’intervista di qualche tempo fa: «un’assistente sociale dell’epoca, che operava nel centro diurno qua sotto, ha avuto modo di osservare i quadri qui a casa, e ne ha parlato al critico Aristide Barilli, che si è trovato d’accordo nel giudizio positivo: quindi la sua prima mostra, a oltre sessant’anni di età, è stata presentata proprio qui nel centro sociale». In breve, grazie all’interessamento congiunto di Barilli, dell’architetto Lusignoli, dello scultore Mazzacurati e altri, il nome di Fereoli arriva fino a Roma, nel nobile palazzo Barberini, dove viene inaugurata una grande mostra collettiva dei naïves italiani e francesi, con la partecipazione dei suoi quadri.
Da piccolo artigiano a pittore naif quasi per caso, arriva ad essere nominato dalla critica nazionale ed estera: perfino il critico Arsen Pohribny, innamorato dei suoi quadri, si reca di persona in quella modesta dimora riconoscendo in Fereoli un pittore di realtà popolare che, «fuori dai canoni stretti di una pittura ingenua per sua stessa definizione, ha saputo farne un luogo a parte, cogliendo la vita con la purezza delle idee e delle forme».
Seguiranno altre opere, panorami delle case colorate di qua dell’acqua, riconoscimenti civili fino al 1991, quando si è spento a ottantanove anni, portatore fino all’ultimo di una solida morale antifascista che affiora dalle memorie del passato, in quei ricordi degli anni giovanili, quando le violenze dei fascisti furono contrastate dall’indomito spirito libertario degli abitanti di Sala che nel ‘22 eressero una barricata sulla strada d’accesso al paese a difesa della sua gente utilizzando i sacchi riempiti con la sabbia del Baganza.

Su questo tema estratto dalla sfera del profondo, nasce, negli anni ‘80, il ciclo pittorico qui presentato delle Barricate. Sarà proprio l’amico Lusignoli che, vedendolo sovente copiare cartoline a tempera e in seguito, una volta impratichitosi anche ad olio, per farne schizzi dei borghi estremamente realisti, pensò di portargli alcune fotografie in bianco e nero scattate al tempo delle Barricate. Prendono forma quindici opere rappresentanti, in sequenza, gli avvenimenti di quelle gloriose giornate in cui il popolo di Parma (e di Sala) seppe resistere alla violenza fascista.
Riviviamo, dunque, attraverso le vivide immagini dell’artista i Fatti di Parma del 1922.
La storia si svolge i primi giorni di un caldissimo agosto di 98 anni fa. È il 1 agosto del 1922 quando, in seguito all’inasprirsi delle violenze fasciste contro le organizzazioni e le sedi del movimento operaio e democratico, l’Alleanza del Lavoro proclama uno sciopero generale nazionale in “difesa delle libertà politiche e sindacali”.
Il Partito Nazionale Fascista in risposta decide di stroncare gli scioperi in corso in varie città d’Italia organizzando squadre di volontari armati; l’Alleanza del Lavoro sospende lo sciopero il 3 agosto, ma le aggressioni aumentano e solo in poche città è organizzata la resistenza alle azioni delle camicie nere.
A Parma gli sviluppi dello sciopero sono ben diversi: la città diviene teatro di una resistenza armata che, dopo cinque giorni di combattimenti, risulterà vittoriosa.
All’alba del 2 agosto, un mercoledì, lunghe file di camion e auto cariche di squadristi fascisti comandati da Italo Balbo, provenienti da tutta l’Emilia, dal Veneto, da parte della Toscana, dal Mantovano e dal Cremonese, sfilano per la via Emilia e sulle strade che convergono su Parma da ogni punto cardinale. Chi dice diecimila, chi quindicimila, qualcuno sostiene che fossero addirittura ventimila: tutti baldanzosi, allegri, tracotanti con i loro gagliardetti in bella posta, sicuri di poter sistemare la faccenda nel giro di poche ore.
Mentre a livello nazionale lo sciopero si esauriva e il fronte democratico veniva sconfitto, a Parma la Resistenza si fa sempre più tenace e organizzata: gli abitanti dei borghi popolari – l’Oltretorrente e il Naviglio – si trincerano dietro le barricate, i poteri passano all’organizzazione armata degli Arditi del Popolo e al suo comandante, il deputato socialista Guido Picelli.
Appena si ha notizia dell’arrivo dei fascisti danno disposizioni per la costruzione immediata di sbarramenti, trincee, reticolati, con l’impiego di tutto il materiale disponibile.

Gli abitanti dei borghi si riversano in strada. Accanto ai circa trecento Arditi del Popolo c’è infatti la quasi totalità della popolazione. È un fiume in piena: migliaia di persone di tutte le età – uomini, donne, vecchi, giovani di tutti i partiti e senza partito – sono lì con picconi, badili, spranghe ed ogni sorta di arnesi, per dar mano a staccare le pietre e il selciato, rotaie del tramvai comprese, a trascinare carri e carretti, ad ammassare travi, mattoni, lastre di pietra, legname, mobili, filo spinato preso dalle botteghe dei ferrettieri. Sorgono barricate ovunque!
La città viene divisa in quattro settori: due nell’Oltretorrente (Nino Bixio e Massimo D’Azeglio) e due in Parma nuova (Naviglio e Aurelio Saffi). È la città dei poveri, popolare, misera e orgogliosa allo stesso tempo ad insorgere.

Fra i borghi sovraffollati, con strette case fatiscenti addossate una all’altra in un labirinto di vicoli abita la gente descritta da Bruno Barilli: la plebe porta il tabarro alla spagnuola, il cappelluccio calcato sugli occhi, e sputa fuori dei denti con tracotanza parlando a grumi quel dialetto mescolato e gagliardo che ancora dura. Il cosiddetto vino della bassa, mistura schiumosa e spropositata che faceva bum nello stomaco, dava fuoco ai loro discorsi e aggiungeva risonanza all’umore fondo di questi odiatori del genere umano.

Il 3 agosto le prime sparatorie presso lo scalo merci. Nei borghi del Naviglio, della Trinità, di via XX settembre, alla periferia nord, i resistenti guidati dall’anarchico Antonio Cieri avevano costruito già barricate con i banchi trasportati a spalla dal prete della vicina chiesa della Trinità. «In effetti lo schieramento politico che appoggia i rivoltosi è piuttosto ampio. Anche la partecipazione dei sacerdoti è confermata: il parroco di San Giuseppe, ad esempio, mette a disposizione i banchi della sua chiesa per costruire una barricata, ma si oppose fermamente a Picelli quando questi gli chiede di issare la bandiera rossa sul campanile» (cit., AA.VV., Dietro le barricate, pp. 271-72). Anche Balbo nel suo diario annota: «I fascisti hanno visto un grosso prete rubicondo agitarsi dietro le barricate dei sovversivi a portare panche e sedie di chiesa. Momento di aberrazione.» (cit., I. Balbo, p. 131).

Nel frattempo anche nell’Oltretorrente ci si organizza.
A tutta codesta robaccia, a tante spacconate degne dei vili mercenari al soldo dei capitalisti, gli Arditi del Popolo di Parma rispondono col motto di Cambronne e gridano: venite avanti, merdosi! (cit., L’Ardito del Popolo, 1 ottobre 1922)
Grazie alle esperienze di guerra degli Arditi del Popolo che coordinano le attività, le barricate non sorgono come imponenti agglomerati di materiali alla rinfusa, ma assomigliano più a fortificazioni di trincea: non devono superare una certa altezza per non offrire un grosso bersaglio ai tiri d’artiglieria, dietro si scavano fossati in cui i difensori trovano riparo dalle scariche di fucileria e per bloccare le fanterie all’assalto si cercano lastroni lisci, difficili da scavalcare d’impeto, legni e ferri acuminati per supplire alla scarsità di filo spinato.

Il 4 agosto i Fascisti attaccano l’Oltretorrente, aprono il fuoco puntando le armi oltre la Parma. Ci saranno molti feriti e caduti, fra quest’ultimi Ulisse Corazza, il consigliere del Partito Popolare.
Sabato 5 agosto, verso le undici del mattino, un contingente di squadristi armati fino ai denti supera ponte Verdi, raggiunge via Farnese, ma all’altezza della Chiesa delle Grazie viene accolto a fucilate: si spara dai tetti e dalle finestre oltre che dalle barricate.

Gli abitanti dei borghi tirano fuori dai nascondigli le armi, per lo più fucili da caccia, qualche vecchia pistola e rivoltella, quindi forconi, roncole, bastoni, zappe, picconi, badili, non mancano neppure moschetti modello ‘91, residuati di guerra, bombe a mano e casse di dinamite.
I negozianti mettono a disposizione cibarie e bevande per i difensori delle Barricate mentre le donne, che accorrono ovunque a prestare l’opera loro preziosissima e ad incitare, dispongono un servizio di approvvigionamento.

Dalle finestre di una delle casupole di Borgo Minelli, una ragazza di diciassette anni, tenendo levata in alto la scure ed agitandola, gridò ai compagni sulla via: se vengono io sono pronta!

Sui campanili, così come sugli abbaini dei tetti i ragazzi più giovani si appostano di vedetta (come il quattordicenne Gino Gazzola, ucciso inerme da un cecchino fascista). Le armi e le munizioni in loro possesso non sono poi molte; alcuni, utilizzando un espediente di istanza garibaldina, durante la notte salgono sui tetti armati di tubi e bastoni impugnati a mo’ di fucile. I falegnami per ordine di Picelli poi intagliano rozzi fucili di legno che, se cosparsi di nerofumo e impugnati come fossero armi vere avrebbero fatto credere che Parma traboccasse di armi.

Notizie, queste, confermate dallo stesso Balbo: «Partecipano alle azioni le donne e i ragazzi. Ora per ora le trincee vengono approfondite e perfezionate. Servizio di sentinella. Operai che si danno il turno. Disciplina militare. (…) Molti operai sono in divisa di ex soldati col relativo elmetto. (…) Mentre i difensori sono di guardia alle trincee, le donne, mobilitate anch’esse, preparano il rancio. Sono coadiuvate da gruppi di cucinieri. Le popolane portano alle cucine antifasciste pane, vino, frutta, lardo, patate. Il rancio viene distribuito due volte al giorno. L’ora del rancio è fissata con uno squillo di tromba. Altri squilli regolano l’ora della ritirata e l’ora della sveglia, nonché gli allarmi».
«All’alba del sei agosto» scrive un Balbo indignato «interviene il regio esercito, frapponendosi fra assedianti e assediati»; le truppe del generale Lodomez entravano nei quartieri occupati dai sovversivi con mitragliatrici e con due cannoni. Si riteneva accanita la resistenza degli avversari. Invece non è stato sparato un colpo di fucile.

«I militari sono accolti con fiori e abbracci dal popolo dell’Oltretorrente al grido Viva l’esercito proletario. […] Molti soldati abbracciati dalle donne che offrivano vino. Segni di vittoria in tutti i quartieri che fino a pochi momenti prima erano in stato di guerra. […] In una piazzetta dell’Oltretorrente è stata scodellata ai soldati una polenta di 15 chili. Non sono mancate le musiche e i balli popolari».

In sintesi, dopo tre giorni di combattimenti che impegnano più che l’Oltretorrente il quartiere Naviglio le truppe di Balbo sono costrette a rompere l’assedio e ritirarsi dalla città.

Si erano vestiti dalla festa
per una vittoria impossibile
nel corso fangoso della storia.

 Stavano di vedetta armati
con vecchi fucili novantuno
a difesa della libertà conquistata

da loro per la piccola patria
tenendosi svegli nelle notti afose
dell’agosto con i cori

della nostra musica
con il vino fosco
della nostra terra.

Vincenti per qualche giorno
vincenti per tutta la vita.

Attilio Bertolucci, Ricordando il ‘22 a Parma

Scheda realizzata in collaborazione con Artificio Società Cooperativa