Claudio Spattini
(Modena 1922 – Parma 2010)

Natura morta con seggiola rossa e campanile del Duomo di Parma
2003, olio su tela

«Claudio Spattini rientra nella schiera degli artisti che, per usare un’espressione di Roberto Tassi, hanno vissuto in profondo, nel sangue la storia della pittura moderna. La tradizione figurativa che li nutre corre lungo una linea che si può far partire da Cézanne ed arrivare a Morlotti […], hanno letto e ascoltato le parole di Francesco Arcangeli, hanno ritrovato se stessi in una corrente di interessi e di scoperte che si è sviluppata qui nel Settecento e che ha toccato un po’ tutte le grandi città e qualcuna anche di provincia, come la Modena e la Bologna degli anni ‘40, dove si ambientano la formazione e l’esordio di Spattini, o Parma, dove il pittore si trasferì nel 1954.» Graziella Martinelli Braglia

Spattini, di origini modenesi, approda a Parma dopo aver vinto la cattedra di disegno alla Scuola Media Giovanni Pascoli di Parma. All’ombra della Ghirlandina è già considerato un pittore affermato. Aveva partecipato, infatti, a importanti mostre nazionali conseguendo numerosi premi e segnalazioni. Il clima culturale a Modena, nel dopoguerra, è particolarmente vivace e il giovane artista emergente diventa ben presto protagonista di varie esposizioni cittadine, occasioni per farsi apprezzare dai critici e dalla stampa. Arrivato a Parma, ritrova un altro artista di origini modenesi, Carlo Mattioli, che lo introdurrà negli ambienti culturali della nostra città.
«E Spattini» ricorda Marcheselli in un articolo della Gazzetta di Parma all’alba della sua morte avvenuta nel 2010 «aveva avuto subito successo, date le sue caratteristiche di uomo – gioviale, generoso e brillante – che di pittore: infatti, era un artista completo e bastava frequentare il suo studio (prima quello in via Garibaldi, negli anni Sessanta-Settanta e, recentemente, l’altro in strada Felice Cavallotti) per rendersi conto della capacità dell’artista di raggiungere sempre la perfezione sia che affrontasse l’ampiezza felice del paesaggio, sia che fissasse sulla tela (ma mai in maniera banale o pedante) le caratteristiche fisiche e caratteriali di una persona nei riconoscibilissimi ritratti, sia che si dedicasse alla amate natura morte, che poi di morto avevano ben poco, nelle movimentate composizioni.»

E forse, ripensando a quell’attico di Via Garibaldi al numero 46, condiviso con l’amico e pittore Amerigo Gabba conosciuto al tempo della frequentazione dell’Accademia di Bologna, Spattini trae ispirazione per questa sua Natura morta con seggiola rossa e campanile del Duomo di Parma del 2003.

Gloria Bianchino, nel catalogo della mostra allestita a Palazzo Bossi Bocchi nel 2012, descrive il nostro quadro con queste parole «ecco dunque in primo piano una grande tavola imbandita con sopra ogni genere di oggetti e a destra la torre del Duomo, e il Battistero di Parma, un’immagine scomposta come nell’antica scansione dei Birolli e dei Cassinari degli anni ’50, ma dipinta con una leggerezza diversa, nuova.»
Per un breve periodo Spattini era rimasto affascinato dall’arte astratta: erano gli anni ‘50 e tutti i giovani pittori avevano sentito il desiderio di concentrare i loro interessi sui valori legati al colore, andando oltre la figurazione. L’esperienza, di assai breve durata, incide necessariamente sulla sua concezione dell’arte, tuttavia tornerà presto entro i confini della figurazione, consapevole che, come lo ricordò Tiziano Marcheselli «il suo mondo era semplice (anche se mai banale) e pescava a piene mani nella fragrante realtà padana di terre, fiori e frutta, anche quando si applicava in un aristocratico nudo di donna.»
Spattini ha sempre avuto, come modello e guida, il dialogo con il reale: egli ha dapprima accolto le novità della Scuola Romana, poi ha posto la sua attenzione a Cézanne, per quello squillo cromatico che consente di dare costruzione volumetrica alle cose e a Picasso, quello precedente alle “Demoiselles d’Avignon” , al Picasso del Periodo Blu e del Periodo Rosa. Per certi versi è difficile non pensare anche ad un’attenzione nei confronti di Matisse, perché l’opera di Spattini è sempre immediata ed emotiva con una tavolozza ricca di sonorità timbriche, di sensuale ed acceso cromatismo, fremente di tensione.
La scelta del realismo in questi anni impone un dialogo con l’esperienza impegnata della ricerca di Renato Guttuso. É bene ricordare che nel 1963 si era inaugurata a Parma la prima grande mostra monografica del pittore che sarà determinante per una diversa presa di coscienza delle lingue del realismo.
Particolarmente interessante è la riflessione di Gloria Bianchino «scegliere di essere realisti in anni così difficili e combattuti ha voluto forse portare a una parziale ‘messa ai margini’ della pittura di Spattini al quale non ha forse neppure giovato la definizione di artista legato alle tematiche morandiane, nata semplicemente da coincidenze iconografiche.»
Certo la lezione di Morandi e Virgilio Guidi si fa intensa e incisiva al tempo degli studi all’Accademia di Bologna, ma Spattini prende presto strade diverse, «al posto della contemplazione sospesa, l’attenzione ai movimenti, alla materia, agli spessori delle forme e un’armonia dei toni e dell’emergere di alcuni di essi [risultano] ben distanti dalle sottili armonie del pittore bolognese. […] C’è sempre una fonte d’ispirazione e dunque anche inconsciamente, i contatti e le esperienze culturali vissute ritornano sempre perché si sono condensate nella pratica consapevole e affinata della propria pittura», si esprimeva così Spattini, parlando di sé e del proprio fare.
Negli ultimi anni della sua ricerca perciò Spattini sembra volere riflettere sulle passate esperienze scegliendo una lingua composita, che dialoga con ed oltre il realismo. La nuova pittura di Spattini è concepita su una stesura di piani che fanno da sfondo ad oggetti assunti – pur nella loro umiltà – a pretesto metafisico.
In questa natura morta lo spazio appare quasi disarticolato poiché le linee prospettiche scandiscono dimensioni distinte, alla maniera delle nature morte sul tavolo di Cézanne. Come per il celebre artista francese la prospettiva, non basta a rappresentare la realtà, per questo modula le pennellate e il colore per creare volumi nello spazio.
Torniamo al nostro quadro dove la costruzione della scena risulta rigorosa e geometrica: in evidenza un piano inclinato a simulare una tavola imbandita priva di tovaglia.
Su di essa riusciamo a distinguere sull’estremità destra i resti del pasto, una succosa anguria intera, una fetta tagliata più in basso, qualche boccone adagiato sulla tavola, qualche foglia e una vecchia lanterna ad olio che ricorre sovente nelle sue opere.

Più complesso il riconoscimento degli oggetti collocati nel lato opposto: vediamo quella che appare una grossa conchiglia dietro la quale campeggia una bottiglia, una brocca riversa sulla tavola, un tovagliolino con i resti del guscio di un gamberetto, forse un pacchetto di sigarette vuoto e stropicciato.

Al centro un piattino da frutta con un limone intonso.

L’impressione è che l’artista abbia voluto rappresentare un fine pasto in una splendente giornata estiva. Nell’opera si vede soltanto una sedia rossa posta dall’altro lato della tavola rispetto alla posizione dell’artista che dalla sua postazione può ammirare il panorama in lontananza. Un pranzo solitario o un romantico tête à tête?

Dalla finestra, o più probabilmente dal terrazzo di casa, è possibile scorgere una delle vedute più belle e caratteristiche della città: Piazza Duomo con la sua cattedrale e il Battistero. Ancora una volta la prospettiva si annulla e il Duomo, certamente più lontano nella realtà, diventa di diritto il protagonista dell’opera. Per Spattini «l’arte supera la natura proprio nella sua capacità di artificio, nel suo essere innaturale, avendo in più la possibilità di svelare il trucco, denunciare l’irrealtà dell’opera, il suo essere precaria nella definizione instabile dell’occhio che contempla.» (cfr. Dall’Acqua, 2007)

Spattini ha bisogno di poter disporre del colore, che non sia costretto, ma libero nella sua naturalità, come certi rossi granata accanto a rossi coralli o a scarlatti impalliditi; certi gialli ocra; certi grigi perla accostati ai grigi ferrosi. Utilizza al contempo una pennellata limpida, molto evidente e mostra di ricordare ancora l’antica esperienza di Mario Mafai, quella di Giorgio Morandi ma soprattutto quella dell’Informale; una pennellata che definisce la forma con il corpo stesso del colore, senza altro bisogno che della luce che ha in sé stesso. La lanterna, la bottiglia, il limone, i gamberetti, i piatti, gli oggetti più vari, la stessa sedia rossa acquistano una trama coloristica che deflagra i volumi, quasi a voler lasciare traccia della sola esistenza delle cose.
Secondo Michele Fuoco «è una vera festa di colori quella che le nature morte esprimono. La pennellata agile e fluida determina una pittura d’impeto, dinamica, equilibrata nei suoi stessi ardori e fondata sui nessi intuitivi che l’artista riesce a stabilire tra i vari oggetti sul tavolo.»

«Questo era Claudio Spattini: sincero come le sue smaglianti nature morte, un po’ distratto, sempre disponibile elegante nella pennellata come nel comportamento umano. Insomma, un Artista con la A maiuscola, che rimpiangiamo di cuore.» Tiziano Marcheselli

Scheda realizzata in collaborazione con Artificio Società Cooperativa