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Crisopoli: Città d’oro. Questo il nome dato a Parma nel VI secolo, durante la dominazione bizantina. Crisopoli: il nome ripreso più volte da Bodoni per indicare il luogo di stampa delle sue magnifiche edizioni, in quella seconda metà del Settecento che fu un’epoca d’oro della storia e della civiltà parmense. Epoca di cui gli stessi contemporanei più avveduti ebbero chiara coscienza. O, come pure fu detto, epoca di illusione. Illusione non poi tanto, se i fasti di una corte che guardava a Parigi come a modello di stile e di vita – e lo faceva spesso velleitariamente – si rispecchiavano in parte su tutte le manifestazioni artistiche della piccola capitale nei decenni estremi dell’Antico Regime e ancora durante la Restaurazione Luigina: due realtà e insieme due miti, quelli della borbonica Atene d’Italia e del governo felice della Duchessa, miti che il nostro tempo nostalgicamente alimenta.

Il numero, il fervore, la qualità degli argentieri e dell’argenteria parmense sono anch’essi la spia di queste età dell’oro. Per cui bene ha fatto Alessandra Mordacci ad avvicinarsi con rigore di ricercatrice esperta e puntigliosa all’argomento e a restringerlo a quelle due epoche contigue, contrassegnate dal nascente ed affermato neoclassicismo. Così finalmente ci è dato ripercorrere il panorama il più possibile completo di tale originale operosità locale. Il frutto delle sue indagini, o meglio, delle sue rilevazioni sul campo sia archivistico che dell’osservazione diretta degli oggetti, è compendiato nella monografia che è stata per noi l’occasione della mostra, per la quale con orgoglio si può affermare essere essa la prima sul tema specifico.

I benemeriti precedenti si limitano infatti alle sezioni d’argenteria delle mostre dedicate l’una al Settecento parmense “L’Arte a Parma dai Farnese ai Borbone (1979)”, e l’altra a “Maria Luigia donna e sovrana (1992)”. Ciò che qualifica in modo particolare la mostra è la presenza preponderante delle argenterie profane provenienti – ad esclusione del nucleo giunto dal Quirinale presso cui confluirono con l’Unità d’Italia gli arredi ducali – da generosi collezionisti privati. Inoltre, la maggior parte dei prestiti è inedita e corredata spesso da una puntuale documentazione archivistica, relativa anche alla committenza, e dall’illustrazione dei marchi, molti rilevati per la prima volta. Su tanta parte poi della produzione argentiera parmense si riverbera l’inconfondibile segno stilistico di E.A. Petitot, l’architetto che è stato oggetto della precedente fortunatissima mostra della Fondazione: la sua fantasia decorativa unita al rigore del lessico classico improntò veramente ogni manifestazione artistica del periodo a Parma. La mostra illustra il livello di specializzazione raggiunto dalle botteghe degli argentieri della città capitale del ducato, spesso in stretta adesione ai modelli di corte legati alle mode di Francia, di Roma, di Milano e, più tardi, di Vienna. Vi sono esposti oltre cento manufatti che testimoniano l’evolversi del gusto della committenza privata, pubblica ed ecclesiastica attraverso l’adesione, di volta in volta, agli stilemi dell’ultimo “rocaille”, alle nuove armoniche proporzioni della transizione al neoclassico, imperante poi fino agli esiti maturi dell’epoca di Maria Luigia, a Parma costantemente memori della grazia e gentilezza proprie della sempre viva luce cinquecentesca di Correggio, Parmigianino e Bedoli, e tuttavia consonante con l’eleganza francese. Non vi mancano anche oggetti della tradizione ebraica e alcuni esempi di commissioni pubbliche prestigiose, quale fu la “Mazza cerimoniale” dell’Università, un capolavoro realizzato nel 1782 da Giovanni Froni e figli, orafi di corte.

L’esposizione e il catalogo costituiscono certo un contributo non secondario alla conoscenza della produzione argentiera italiana del passato.

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